Samuel Stern 19: I sotterranei di Edimburgo

I sotterranei di Edimburgo nascondono l'orrore che è dentro ognuno di noi. Che cosa ne facciamo?

Samuel Stern lotta contro un avversario mascherato

I sotterranei di Edimburgo è, a mio modesto parere, una storia tristissima. Non che i precedenti diciotto numeri di Samuel Stern mi avessero abituato a storie solari e con il finale felice... Ma, in cuor mio, ci spero sempre.

Perciò mi sento in dovere di metterti in guardia: se stai cercando una recensione che parli di Samuel Stern, che analizzi qualunque sternuto (ahahahah!) del protagonista e qualunque prurito dei comprimari, che strabordi d’entusiasmo per ogni minchiata, passa oltre. Non la troverai qui.

Se invece ti intriga sapere perché io ritenga I sotterranei di Edimburgo una lama affilata capace di colpire al cuore le speranze umane, allora continua a leggere.

Come ho già detto altre volte, le recensioni (a meno che non siano essenzialmente tecniche ed asettiche) non parlano dell’opera, ma dell’animo del recensore. Perciò dovrai accettare di ascoltare ciò che ho da dire di me.

Attori, maschere e menzogne

La storia si basa su alcuni elementi che ben si prestano a rappresentare la condizione umana, soprattutto quella meno sana:

  • gli attori
  • le maschere
  • la recitazione
  • i sotterranei
  • i demoni
  • e, soprattutto, i derelitti; quelli che non possono reggere il confronto con quelli che hanno capito come va il mondo.

Perché dico che questi elementi rappresentano bene la condizione umana?

Comunità per tossicodipendenti

In una vita precedente, io ho lavorato come operatore terapeutico in una comunità per tossicodipendenti. Erano gli anni dei tossici da piazza, erano gli anni dell’AIDS, erano gli anni degli zombi che quando non ciondolavano in città ti puntavano un coltello o una pistola per avere i pochi gioielli che portavi addosso.

Chi si ricorda che cos’era Parco Lambro, nella Milano di quegli anni?

Una comunità terapeutica era un’isola tranquilla dove riprendersi dopo aver fatto naufragio. Di più: era un vero e proprio miracolo.

Ma per me operatore che arrivava da una realtà protetta, era anche ben altro.

Il lato bello della medaglia era vedere che questi ragazzi e queste ragazze, piano piano e con fatica, tornavano a vivere. Scoprivano che, anzi, alla loro vita ci tenevano, dopo aver fatto di tutto per distruggersi. Scoprivano l’amicizia e la lealtà, dopo essersi nutriti solo di sopraffazione e di opportunismo.

Ma l’altro lato della medaglia era la consapevolezza che ciò che era capitato a loro sarebbe potuto capitare a chiunque. La consapevolezza che quei ragazzi e quelle ragazze non erano una razza strana (aliena o bacata), che andava studiata come si studia un animale esotico. La consapevolezza che quei meccanismi che avevano portato quelle persone alla tossicodipendenza erano gli stessi identici meccanismi che tutti noi mettiamo in atto per recitare la nostra parte nel mondo. Certo, alcuni di questi meccanismi sono non solo tollerati, ma a volte addirittura lodati:

  • il successo professionale
  • l’esaltazione della forma fisica
  • l’ostentazione della potenza sessuale, sia maschile sia femminile
  • i titoli scolastici ed onorifici
  • l’iperattività benefica e il volontariato
  • e via dicendo.

In pratica, ognuno ha il suo modo per credersi bello ed importante, purché non faccia trasparire le fragilità e l’estremo bisogno di essere accolto per ciò che è, quando si mostra in verità.

Nel corso del programma terapeutico, uno dei momenti più importanti era quando il ragazzo o la ragazza iniziava a parlare davanti a tutti dei propri autogiudizi e delle proprie paure. Spesso erano giudizi e paure proprio da bambino, che avrebbero strappato un sorriso se non avessero portato a comportamenti e situazioni così distruttivi. Ma in genere la domanda era sempre la stessa: “Mi starai vicino anche se sono così, limitato e imperfetto?”

È questa domanda che ognuno di noi si tiene dentro ed evita accuratamente di fare, per la paura che l’altro risponda di no. E allora tentiamo di diventare perfetti o necessari, così l’altro non potrà fare a meno di noi.

Torniamo ad Edimburgo

Nella storia I sotterranei di Edimburgo viene ricordata la vicenda che vide protagonista la città vecchia, abitata dai meno abbienti e dai diseredati: durante un’epidemia di peste venne letteralmente sigillata, lasciando morire di fame o di malattia sia i sani sia i malati.

Questo è l’atteggiamento di coloro che affrontano un problema semplicemente tentando di negarlo, non di risolverlo. Ancora oggi è molto in voga: pandemie, migranti, inquinamento, cambiamento climatico e via dicendo sono ottimi motivi per innalzare muri o mettere la testa sotto la sabbia.

Ma anche illudersi, far finta di essere ciò che non si è, non avere il coraggio di dire chiaramente ciò che si prova, ricorrere ad alternative artificiali, dare agli altri la colpa dei propri fallimenti sono sistemi distruttivi molto in voga. Sistemi distruttivi e autodistruttivi.

Ecco perché, per me, I sotterranei di Edimburgo è una storia molto triste.

Ne ho viste troppe di storie così. Io di storie così non ne ho solo lette: le ho vissute. A distanza di una vita, ricordo ancora i nomi e i volti di quei ragazzi e di quelle ragazze.

E se il pensiero di coloro che ne sono venuti fuori mi consola e mi addolcisce il cuore, il pensiero di coloro che non ce l’hanno fatta mi toglie ancora oggi il respiro.

Post scriptum

Bella la storia, belli i disegni. Forse sarebbe giusto parlarne un po'. Ma sono troppo triste.

Nell'oscurità ci si può nascondere meglio, dice il protagonista di fronte a un bicchiere di vinoClicca per ingrandire

 


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